martedì 28 agosto 2012

INTERVISTA AL REGISTA LEE SANG-WOO

Di Diego Del Pozzo 
(Il Mattino - 15 agosto 2012)
 
Lee Sang-woo
La cinematografia sudcoreana s’è imposta, a cavallo tra secondo e terzo millennio, come una tra le più vivaci e vitali dell’intero panorama internazionale. Sulla scia del clamore suscitato dai film di un maestro scomodo come Kim Ki-duk – il controverso autore di pellicole “di culto”, distribuite anche in Italia, come “L’isola”, “Ferro 3 – La casa vuota” o “Time” – il cinema della Corea del Sud ha saputo fare incetta di riconoscimenti nei festival più prestigiosi, trovando anche spazio sul mercato globale, grazie allo stile originale dei suoi molti cineasti di talento ma, soprattutto, alla schiettezza e alla rabbia con la quale sanno affrontare temi estremamente scomodi, troppo spesso rimossi nei film occidentali. E tra gli autori di punta della “nuova onda” sudcoreana c’è il quarantunenne Lee Sang-woo, detto “l’orco del cinema indipendente”, autore in passato di titoli maledetti come “Mother is a Whore” (2010) e “Father is a Dog” (2011) e vincitore, qualche settimana fa, della sezione più prestigiosa del Giffoni Experience – quella, cioè, dedicata ai ragazzi di età superiore ai 18 anni – col duro e poetico “Barbie”, possibile caso cinematografico della seconda metà del 2012, già opzionato da numerosi altri festival europei.
Apologo amarissimo sulla forza inarrestabile del “sogno americano” e denuncia della tragedia del traffico di bambini dalle nazioni più povere dell’Estremo Oriente all’Occidente per utilizzarne gli organi vitali in chirurgia, “Barbie” racconta di un medico americano che arriva in Corea con la figlia tredicenne (la Barbie del titolo) per comprare sul mercato nero, da uno zio senza scrupoli, l’inconsapevole Soon-young, la cui sorella minore innamorata degli Stati Uniti prova a prenderne il posto per andare a vivere nel Paese dei suoi sogni. Purtroppo, però, le due ragazzine coreane ignorano il terribile motivo dell’accordo tra lo zio e il medico statunitense. “Ma “Barbie” – spiega Lee Sang-woo – è un film non tanto sulla realtà profondamente infelice delle adozioni illegali, quanto sulla maniera giusta di vivere e sulla dignità umana. Ancora non so come si deve vivere, ma so quanto è difficile vivere degnamente”.
Una scena di "Barbie" (2011)
Ma come mai ha deciso di affrontare un argomento così scomodo?
“Si tratta di una storia vera accaduta in Corea nel 1989. All’epoca ero poco più che un ragazzino e mi colpì molto, così oggi ho deciso di affrontarla e trasformarla in film. E poi, anche se nel mio Paese certe cose non avvengono più, purtroppo sono ancora molto comuni in altre nazioni più povere del Sud-Est asiatico. Dunque, ritengo che parlarne possa essere importante”.
Lei è noto per la crudezza tematica e il rigore stilistico dei suoi film. Come riesce a realizzarli senza censure?
“Io giro con budget bassissimi, riesco a finanziarmi da solo e posso mantenere totale autonomia su temi e stile. Di solito, procedo così: per 7-8 mesi all’anno ho un impiego regolare col quale guadagno ciò che poi utilizzerò per il film, di solito tra i 5.000 e i 6.000 dollari; quindi, chiedo un permesso dal lavoro e giro in poche settimane, senza fermarmi quasi mai, con ritmi intensissimi che un paio di volte mi hanno persino fatto collassare sul set. Paradossalmente, proprio per “Barbie” ho trovato per la prima volta un finanziamento esterno, circa 10.000 dollari, ma sono riuscito a mantenere piena libertà”.
Com’è il momento attuale dell’industria cinematografica sudcoreana, mentre in Occidente la crisi è sempre più forte?
“In Corea e, più in generale, in Asia il cinema è ancora il principale passatempo per una larga fascia della società. Dunque, l’industria è forte, con finanziamenti pubblici, anche se io non ne usufruisco, sostegno per la distribuzione all’estero e per la partecipazione ai festival internazionali. Dopo la vittoria a Giffoni, per esempio, “Barbie” uscirà in Corea e Giappone a metà settembre, ma il distributore internazionale sta lavorando anche per una possibile uscita in Italia e nel resto d’Europa, dopo ulteriori passaggi nei festival”.
Lei è prolifico come il suo celebre collega Kim Ki-duk, capofila del “nuovo cinema coreano”, col quale ha collaborato per “Time” e “Breathe”. Sta già lavorando a un nuovo progetto?
“Dopo “Barbie” ho già girato un altro film, intitolato “Fire in Hell”, passato a giugno in concorso al festival di Mosca: è una storia di karma su un monaco buddista scomunicato e il suo incontro con la gemella della donna che ha assassinato. E tra qualche mese inizierò le riprese di un dramma sulla felicità: sarà il mio film più commerciale”.