venerdì 7 settembre 2012

INTERVISTA (AGOSTANA) A LEONARDO DI COSTANZO

Questa che gli ho fatto a inizio agosto è la prima intervista rilasciata da Leonardo Di Costanzo sul suo film "L'intervallo", che in questi giorni ha riscosso grande successo alla Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia. Buona lettura. (d.d.p.)
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Di Diego Del Pozzo
(Il Mattino - 6 agosto 2012)

Dopo una carriera da documentarista capace di consacrarlo tra gli autori più rilevanti del “cinema del reale” europeo, il regista napoletano Leonardo Di Costanzo esordisce nel cinema di finzione alla prossima Mostra di Venezia, dove sarà presentato in anteprima, nella sezione Orizzonti, il suo L’intervallo, che verrà poi distribuito nelle sale il 5 settembre da Cinecittà Luce. Scritto assieme a Maurizio Braucci e Mariangela Barbanente, "è un racconto di amore spezzato e poesia calpestata, attraverso il quale – spiega Di Costanzo – ho voluto narrare le difficoltà di essere adolescenti nella periferia violenta di una metropoli contemporanea. L’ambientazione è napoletana, ma potrebbe essere ovunque vi sia una situazione di coercizione, in Iran come in un collegio svizzero, poiché in realtà la storia è universale".
Leonardo Di Costanzo sul set con i suoi attori
Di che parla, dunque, L’intervallo?
"Di un ragazzo e una ragazza, Salvatore e Veronica, rinchiusi all’interno di un enorme edificio abbandonato di un quartiere popolare, dove l’uno deve sorvegliare l’altra: lei è la prigioniera, mentre lui è obbligato dal capoclan di zona a fare da carceriere. Malgrado la giovane età, entrambi sono troppo cresciuti, ma in realtà restano vittime di una situazione più grande di loro. Col trascorrere delle ore, l’ostilità reciproca si trasforma in inevitabile intimità, fatta di scoperte e confessioni. Così, tra le mura di quel luogo isolato e spaventoso, Veronica e Salvatore trovano un loro modo di riaccendere sogni e suggestioni di un’adolescenza messa troppo in fretta da parte".
Quasi tutto il film si regge sulle spalle di due giovani interpreti non professionisti, Alessio Gallo e Francesca Riso, che lei ha selezionato al termine di un processo lungo e articolato. Com’è andata?
"Quando abbiamo iniziato a scrivere, ci è apparso subito chiaro che avremmo dovuto pensare la sceneggiatura in modo da lasciare poi spazio agli attori, affinché la adattassero a sé, arricchendo i caratteri e le vicende col loro vissuto e la loro lingua. Perciò, fin dall’inizio, ho deciso che i due protagonisti sarebbero stati non professionisti. Grazie alla collaborazione del Teatro Stabile di Napoli e attraverso scuole e associazioni di educatori, ho incontrato circa 200 adolescenti di quartieri popolari napoletani e, con l’aiuto di Antonio Calone e Alessandra Cutolo, ne ho selezionati una dozzina, più o meno sei coppie di possibili protagonisti. Abbiamo lavorato con questi ragazzi per oltre tre mesi, senza mai mettere mano alla sceneggiatura. E, soltanto quando le scelte si erano ristrette a due coppie, abbiamo iniziato a lavorare sul testo, traducendo in napoletano i dialoghi e raccogliendo le suggestioni degli attori, che li hanno arricchiti e resi più aderenti al loro mondo".
Qual è stato l’elemento più complesso di questo metodo di lavoro?
"La cosa più difficile del lungo laboratorio di coaching per la recitazione improvvisata non è stata soltanto individuare i più bravi, ma anche quelli con la chimica migliore tra di loro, poiché sulla loro relazione si regge l’intero film. E poi, essendo adolescenti non professionisti, dovevamo assicurarci che fossero in grado di assumersi questo impegno gravoso fino in fondo con impegno e disponibilità, proprio come poi hanno fatto Francesca e Alessio".
Lei oggi vive tra Parigi e Napoli, ma ha deciso di girare l’intero film nella sua città d’origine.
"Che, però, si percepisce da lontano, poiché L’intervallo è girato quasi integralmente all’interno dell’ex ospedale psichiatrico “Leonardo Bianchi”, un insediamento di 200mila metri quadrati, realizzato nel Diciannovesimo secolo e ormai abbandonato da anni. Anche la presenza della camorra è intesa come elemento di coercizione sul territorio, ma la storia avrei potuto ambientarla tranquillamente ovunque nel mondo".
Com’è maturato il passaggio dal documentario alla finzione e quali differenze ha riscontrato tra queste due modalità di cinema?
"Mi sembrava che fosse il momento giusto per affidarmi a personaggi “esterni”. Rispetto al documentario è tutto più difficile: devi coinvolgere subito tante altre persone e, soprattutto, devi essere a conoscenza di ogni minimo dettaglio, col rischio di perdere la capacità di farti sorprendere dalla realtà circostante. Anche stavolta, comunque, ho lasciato intatta la mia curiosità nei confronti di quella dimensione inesauribile di ispirazione che è il reale, con enorme fiducia nelle sue infinite possibilità narrative".